L’ultima volta che l’Italia ha partecipato ai mondiali di calcio era nel 2014; me lo ricordo bene. Non solo perché nel mentre di mondiali ne sono passati già due, ma anche per il famigerato “morso” di Suarez a Chiellini.
Una occasione di “real-time” social media marketing che in tanti brand ripresero e cavalcarono; da McDonald a Puma fino a Barilla che realizzò un post bellissimo (ma sono di parte, lo avevamo fatto noi in Ambito5).
Vivendola da dentro sembrava l’inizio di un nuovo modo, innovativo, di fare marketing, di avvicinare le persone alle marche, di rendere la loro relazione più quotidiana e per certi versi intima.
Poi qualcosa è andato storto.
Anche meno
Ognuno di noi può facilmente identificare tra i suoi amici il mitico “clown da salotto“, giusto? E’ quel tipo (di solito maschio, ahimè) che non può resistere all’impulso di essere il centro dell’universo, monopolizzando ogni conversazione con battute forzate e aneddoti gonfiati. Dopo un po’, diventa come un brano pop ripetuto all’infinito alla radio: irritante e totalmente dimenticabile.
Ora, immagina quel clown con un budget di marketing. Ecco cosa hanno fatto i brand ai social media nell’ultimo decennio. Hanno urlato più forte, hanno cercato di essere più audaci, più virali. E il risultato? Sono diventati il rumore di fondo che tutti noi abbiamo imparato ad ignorare.
Qual’è l’ultimo post di Durex? Ceres? Ryanair? E non mi parlate di Taffo…
Brand costruiti con fatica e sudore che sembrano disposti a vendere l’anima per un po’ di visibilità, trasformando la propria equity in un meme. Mi rendo conto che rischio di passare da boomer; alla fine tutto questo le marche lo fanno per strizzare l’occhio alla generazioneZ, vero?
Ecco, la cosa divertente è che i “giovani” sono già da un’altra parte. Sono così disinteressati da queste tattiche da fare scroll senza nemmeno pensarci due volte. I social sono diventati così un mondo autoreferenziale dove nei commenti, oltre alle risposte piccate dei clienti, trovi solo i complimenti che si scambiano i social media manager per averla detta/fatta più grossa.
E adesso?!
Di “social” c’è poco…
Qualche giorno fa in un post su TikTok Ryanair ha lanciato una promozione, finta, per un buono sconto. Il tono è irriverente, ma forse anche un pò di più, una vera e propria presa in giro dei clienti. I commenti non sono per niente divertiti, anzi.
“Vabbè, allora prendo EasyJet”, “Davvero un’ottimo post, adesso mi reco in aeroporto e darò fuoco a un aereo che sta per partire (che bel meme ci uscirà)”, “Si si perculate pure , arriverà il momento in cui fallirete 😉”
La popolarità dei grandi social network come X/Twitter e Instagram sta declinando in modo evidente. Linkedin, crescendo nella sua base utenti, rischia sempre di più di somigliare ad una versione business di Facebook (con i relativi difetti). In generale l’esperienza sui social appare oggi più passiva e omogeneizzata. I contenuti sono decisi dagli algoritmi, che premiano l’engagement a discapito della qualità.
Sia chiaro, io amo gli algoritmi, ma c’è un problema: stanno uccidendo la spontaneità, la casualità delle interazioni umane. È come se fossimo in un ristorante dove il menù è deciso per noi. Non c’è più sorpresa, solo un loop infinito di “più dello stesso“.
Brand sui social: che fare?
Sarò boomer (e due), ma dobbiamo tornare alle basi di questo mestiere. La comunicazione di marca deve “usare” i social media, e non farsi usare o peggio svendersi in cambio di un click/like in più.
L’ironia? E’ fantastica, ma usala con parsimonia, come il sale in una ricetta. Non può e non deve sostituire il rispetto per il pubblico. Il futuro dei social media sarà inevitabilmente più di nicchia, più focalizzato su comunità reali e meno su KPI superficiali.
Insomma cari brand, se continuate a giocare il gioco dell’ironia e del sarcasmo, preparatevi a diventare il rumore di fondo che tutti ignorano. E in un mondo dove l’attenzione è tutto, essere ignorati è la cosa peggiore che possa accadere.
Sempre avanti, condannati all’ottimismo!
Giuseppe