Dai un nome alla tua AI! (#85)


L’anno che sta per concludersi ha visto l’AI generativa entrare prepotentemente nelle aziende e all’interno delle organizzazioni a tutti i livelli. Ma come stiamo affrontando il tema della collaborazione tra dipendenti ed AI? Questo forse è IL vero tema sul tavolo; ne abbiamo parlato tanto nel 2024, ma la capacità di far funzionare in modo virtuoso la collaborazione tra persone ed AI promette di essere centrale anche nel 2025 e oltre.

Alcuni dati per capirci meglio; il primo, magari scontato, è che si, l’AI aumenta la nostra produttività sul lavoro. Meno scontato notare come questo aumento della produttività a livello individuale non si traduce necessariamente in un aumento della produttività a livello di organizzazione. Perchè? Beh perchè i primi dipendenti “AI enabled” una volta compreso che possono fare molto di più con uno sforzo minore… tendenzialmente non vanno dal proprio superiore dichiarando di avere il 50% del proprio tempo di lavoro libero.

Quindi produttività a livello personale NON si traduce in produttività a livello di organizzazione; ma allora che fare?

Condivido qui qualche riflessione sparsa sul tema sperando possa essere un buono spunto per iniziare a ragionarci insieme.

Il potere dei nomi e delle relazioni

Ho avuto l’opportunità negli ultimi mesi di lavorare su diversi progetti di AI adoption e c’è una cosa curiosa che mi ha colpito particolarmente: l’idea di dare un nome ai nostri strumenti di AI sembra essere molto, ma molto efficace.

So cosa state pensando: “Mayer, ma sei impazzito? Stiamo parlando di software!“. Lo pensavo anche io, ma poi ho iniziato a riflettere su come questo semplice gesto possa cambiare radicalmente il nostro approccio alla tecnologia.

Non si tratta di antropomorfizzare l’AI o di fingere che sia un essere senziente. È piuttosto un modo per renderla più accessibile, meno intimidatoria. Pensateci: quando in azienda parliamo di “implementare soluzioni di intelligenza artificiale per l’ottimizzazione dei processi“, tutti si irrigidiscono. Ma quando diciamo “chiediamo a Marco di aiutarci con l’analisi dei dati“, la prospettiva cambia completamente.

Un esempio pratico? Lilli di McKinsey; una piattaforma digitale che combina intelligenza artificiale, automazione e analisi avanzata per supportare i consulenti nell’accelerare la risoluzione dei problemi, migliorare l’efficienza e creare soluzioni personalizzate per i clienti

Ma anche qui si nasconde una trappola insidiosa; il “satisficing“. È un termine che unisce “satisfy” e “suffice”, e descrive quella tendenza che abbiamo ad accontentarci della prima risposta plausibile che riceviamo dall’AI.

Mi sono reso conto che anche io lo faccio quotidianamente. Chiedo qualcosa all’AI, ottengo una risposta che sembra ragionevole e mi fermo lì. È come se avessimo sostituito il “va bene lo stesso” umano con un “va bene così” digitale, solo più veloce e apparentemente più sofisticato.

Ma è questo che vogliamo davvero?

Una nuova competenza chiave: l’equilibrio

L’esperienza mi ha insegnato che i risultati migliori non emergono né da un affidamento cieco all’intelligenza artificiale, né da un atteggiamento di diffidenza o timore nei suoi confronti. I team e le aziende che ottengono il massimo dall’AI sono quelli che riescono a stabilire un dialogo equilibrato con essa, sviluppando una competenza chiave: la capacità di interagire con la tecnologia in modo critico e consapevole, riconoscendone tanto il potenziale quanto i limiti.

Questi team non si limitano a prendere le risposte dell’AI come definitive, ma imparano a porre domande più profonde, ad analizzare i risultati in modo critico e a sfruttarli come base per ulteriori esplorazioni. L’AI non viene vista come un’entità che fornisce soluzioni perfette, ma come uno strumento per ampliare l’orizzonte delle possibilità.

È l’inizio di un percorso, non la conclusione.

Questo approccio consente di sbloccare creatività e insight che vanno oltre ciò che il team potrebbe raggiungere autonomamente.

Un esempio concreto può chiarire meglio il concetto: pensiamo a un team di marketing che utilizza l’AI non semplicemente per generare contenuti standardizzati, ma per stimolare nuove prospettive e sperimentare. L’AI può suggerire toni di voce diversi, angolazioni narrative inusuali, o addirittura individuare opportunità che il team umano potrebbe aver trascurato. In questo contesto, la tecnologia diventa un partner creativo, capace di amplificare la portata del lavoro umano. Non sostituisce l’intuizione, la sensibilità o la visione strategica delle persone, ma le potenzia, rendendo il processo più ricco, dinamico e innovativo.

Questa nuova dinamica di equilibrio tra team e AI ci porta naturalmente a riflettere su un aspetto cruciale: il ruolo della leadership in questo scenario in evoluzione. Se l’interazione con l’AI richiede un approccio più sfumato e consapevole, diventa fondamentale capire come la leadership debba adattarsi per guidare questa trasformazione.

Un nuovo modo di guidare

In questo contesto anche il ruolo del leader deve evolversi in modo radicale: non si tratta più di comandare e controllare, ma di orchestrare una sinfonia sempre più complessa dove umani e AI devono suonare in armonia.

I leader efficaci in questo nuovo contesto sono quelli che sanno:

  • Incoraggiare il dialogo critico con l’AI

  • Bilanciare efficienza e innovazione

  • Mantenere al centro l’elemento umano

Ma soprattutto, devono saper gestire qualcosa di cui si parla poco: l’ansia da prestazione che molti collaboratori provano di fronte a questi strumenti così potenti. Come gestire il senso di inadeguatezza? Come evitare che la tecnologia diventi fonte di stress invece che di empowerment?

La risposta, almeno per ora, sembra essere nella creazione di quello che chiamo “spazio sicuro di apprendimento“: un ambiente dove le persone possono sperimentare, sbagliare, imparare, senza il timore di essere giudicate o sostituite.

È un cambio di paradigma importante. Non stiamo più parlando di implementare tecnologia, ma di ripensare completamente il modo in cui lavoriamo e collaboriamo. L’AI non è uno strumento da usare, ma un collega, particolare, da integrare nel team. Una collaborazione che richiede tempo, pazienza e, soprattutto, una grande dose di umanità.

In fondo, il paradosso più grande è proprio questo: più la tecnologia diventa potente, più diventa importante l’elemento umano. E forse è arrivato il momento di fare quel passo in più: dare del tu alla nostra AI, chiamarla per nome, trattarla come quella collega un po’ particolare che è.

Perché se davvero dobbiamo lavorare insieme ogni giorno, meglio iniziare a conoscerci davvero.

Sempre avanti, condannati all’ottimismo!

Giuseppe