SONG OF THE WEEK: My Way (la sua preferita)
Ho iniziato a scrivere queste riflessioni settimanali, il Dottor Mayer, ormai quasi due anni fa. Non per posizionarmi come esperto di qualcosa o per dispensare saggezza dall’alto.
L’ho fatto per me; per studiare meglio temi che mi appassionano (AI everybody!), per provare a capire cose che ancora non mi sono chiare, e per confrontarmi con persone che stimo (yes, sei tu caro lettore) su temi di lavoro… ma non solo.
E proprio per questo motivo non posso non parlare di quello che è successo in queste ultime settimane anche se molto personale e … beh per certi versi tabu! Sarà una newsletter un pò diversa dal solito, mi rendo conto, ma spero ugualmente interessante. Iniziamo!
100% di probabilità
Poche cose sono certe nella vita, ma una ha il 100% di probabilità di accadere.
Mio padre è venuto a mancare pochi giorni fa, dopo più di un anno di una malattia che non abbiamo capito in tempo, che non abbiamo compreso. E quando finalmente ne abbiamo compreso origine e natura, io e la mia famiglia ci siamo trovati a vivere quel che i medici definiscono, con un eufemismo davvero poco riuscito, ‘la fase terminale‘.
Gli specialisti della materia sono stati chiarissimi fin dall’inizio; niente speranze, niente soluzioni miracolose. Solo la possibilità di stargli accanto e supportarlo in questo ultimo tratto di strada. Ho avuto quindi tutto il tempo del mondo per prepararmi, di fare pace con lui (e mi è costato, ovviamente) e però, quando è successo… mi sono ritrovato comunque assolutamente impreparato. Come si fa del resto ad essere preparati all’inevitabile?
Sono stati mesi per molti versi davvero strani; vivo lontano dai miei genitori, ma ho la fortuna di avere mia sorella che è nella loro stessa città. Ecco perchè in questo periodo ad ogni telefonata, ad ogni peggioramento della situazione mi son ritrovato su un taxi/treno/aereo e dopo almeno 5 ore ero li, nel posto che chiamavo casa quando ero piccolo.
Una sorta di bolla spazio/temporale che ha assorbito tutto come un buco nero, lasciando solo un enorme vuoto.
Credo anche che delle scuse qui siano doverose. In questo ultimo anno proprio per questa situazione, molto spesso sono stato sfuggente con persone care e, lo ammetto, distratto su cose di lavoro anche importanti. Quello che ho passato non giustifica nulla, ma spero che possa essere compreso.
E tante care cose
Ogni volta che ripartivo da casa dei miei per tornare da mia moglie e dalle mie figlie per me quello era un addio; non sapevo se e come avrei ritrovato mio padre e questo era, ovviamente, lacerante. Credo di poterne contare almeno una trentina di addii in quest’anno ed ero ormai diventato abbastanza bravo a gestirli senza piangere o farmi vedere troppo abbattuto da lui.
E poi, inevitabilmente, uno di questi addii è diventato davvero l’ultimo.
E sai qual è la cosa più strana? Il modo in cui il dolore si manifesta fisicamente. Nessuno te lo dice, ma il lutto ha un peso specifico. Lo senti proprio, fisicamente. Ti svegli la mattina e ti chiedi perché sei così stanco, come se avessi corso una maratona. E in effetti forse è proprio così; il tuo corpo sta correndo una maratona emotiva di cui non conoscevi nemmeno l’esistenza. Il mio Oura lo conferma :).
Mi sono ritrovato a fare cose assurde nelle ultime settimane. L’altro giorno ho passato mezz’ora a fissare la sua maglia con zip appesa nell’ingresso, come se da un momento all’altro potesse dirmi qualcosa. Ho conservato l’ultimo messaggio che mi ha mandato su WhatsApp e ogni tanto lo rileggo, anche se c’è scritto solo “Ok, ci sentiamo dopo”. E sì, ho anche annusato quella maglia cercando di trattenere il suo odore, come un pazzo (e si sapeva di fumo).
Se stai pensando che sono impazzito, beh, benvenuto nel club della follia del lutto.
La presenza e gli altri
Il paradosso più grande? Mio padre non c’è più, ma in qualche modo è più presente che mai. È in ogni caffè che prendo la mattina (lui lo beveva solo ristretto con la moka, io lungo con la Nespresso; quante discussioni su quale fosse il modo “giusto”), in ogni partita della Inter che guardo (e soffriamo, come sempre… almeno quello non è cambiato #PazzaInter), ed in tante piccole cose quotidiane (lui non ha mai preso una multa, io milioni, lui non ha mai fatto casino sul lavoro .. io beh beh beh!).
La dimensione sociale del lutto però è una delle cose più surreali da gestire. Le categorie umane sono diversissime qui!
C’è la categoria dei “fuggiaschi“, quelli che attraversano la strada quando ti vedono arrivare perché non sanno cosa dirti. Li riconosci subito: sono gli stessi che fino a ieri ti fermavano per mezz’ora a parlare del più e del meno.
Poi ci sono i “risolutori seriali“, quelli che hanno la soluzione pronta per ogni cosa. “Devi distrarti”, “Devi tenerti occupato”, “Dovresti fare un viaggio”. Come se il dolore fosse un problema da risolvere con un algorithmo. Input: lutto. Output: soluzione.
Non dimentichiamo i “veterani del dolore“, quelli che hanno vissuto una perdita e ora sentono il bisogno di raccontarti nei minimi dettagli la loro esperienza. Come se il dolore fosse una competizione olimpica e loro dovessero difendere la medaglia d’oro.
E infine, i più temibili: i “filosofi improvvisati“. Quelli del “è la vita”, “era destino”, “è andata così”. Grazie dell’illuminazione, non ci avevo pensato.
La verità? Tutti stanno solo cercando di aiutare, a modo loro. Il problema è che il lutto mette a disagio. È come un elefante nella stanza che tutti vedono ma di cui nessuno sa come parlare (o vuole parlare). E così ci ritroviamo intrappolati in questo balletto sociale dove chi sta male deve anche preoccuparsi di far sentire a proprio agio chi sta bene.
Ho scoperto nelle ultime ore che la cosa migliore è essere diretti. Quando qualcuno mi chiede “Come stai?”, rispondo onestamente: “Oggi è una giornata di m***a” oppure “Oggi va meglio”. Fine. Non serve aggiungere altro. Non serve fingere che vada tutto bene e non serve nemmeno trasformare ogni conversazione in una seduta di terapia. Fortunatamente!
E sai qual è la cosa più assurda? A volte le parole più confortanti vengono da chi semplicemente ammette: “Non so cosa dirti, ma sono qui“. Ecco, quella è onestà. Quella è presenza vera. Tutto il resto sono solo parole che riempiono un silenzio che fa paura.
Nel frattempo ho imparato a gestire le situazioni sociali come se fossi un DJ ad una festa: ci sono momenti in cui alzo il volume e momenti in cui lo abbasso. Ci sono giorni in cui posso gestire le persone e le loro reazioni, e giorni in cui proprio no. E va bene così.
La cosa più importante che ho capito è che non devo gestire il disagio degli altri. Non è compito mio. Il mio unico compito è attraversare questo momento come meglio posso. E se qualcuno si sente a disagio… beh, può sempre fare come i “fuggiaschi” e attraversare la strada.
Il manuale che non c’è
La verità è che non c’è un manuale per queste cose. Non c’è un percorso lineare che va dal dolore alla “guarigione”. Come se una guarigione fosse possibile!
È più come un ping pong emotivo. Un giorno sei quasi ok, quello dopo sei di nuovo nel baratro. Un momento ridi ricordando una sua battuta, quello dopo piangi perché non potrai più sentirlo raccontarla. E va bene così.
La ricostruzione, se così vogliamo chiamarla, non è un ritorno alla “normalità”. È la creazione di una nuova normalità, dove quello che è successo diventa parte di chi sei. Se ho imparato qualcosa in questi mesi è che non si “supera” una perdita, la si integra nella propria vita. Si impara a conviverci, come con una cicatrice che non fa più male ma ti ricorda sempre da dove vieni.
E quindi? Quindi visto che cerco di chiudere queste newsletter sempre con qualche consiglio pratico e con qualche spunto che ho imparato, eccoti cinque cose che ho appreso in questo percorso, per quello che possono valere:
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Non esiste un modo “giusto” di vivere il lutto. Come non esiste un modo giusto per essere figlio, padre o marito. Il tuo dolore è tuo, e hai il diritto di viverlo come ti pare. Punto! Io ci scrivo una newsletter, stacce!
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La tristezza e la gioia possono coesistere. Non sentirti in colpa se ti ritrovi a ridere o a goderti un momento felice. Non stai tradendo nessuno. Non stai mancando di rispetto alla memoria di chi non c’è più, al contrario: stai celebrando la sua vita!
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I ricordi sono come il vino: alcuni giorni sono dolci, altri aspri. Non cercare di controllarli, lascia che vengano. E se con il tempo si faranno più radi o si disperdono, lascia che siano come l’onda che arriva a riva e diventa parte del tutto! (questa è la metafora sulla morte che preferisco, in assoluto)
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Le persone intorno a te spesso non sanno cosa dire o fare. Non prendertela troppo: probabilmente anche tu non lo sapevi prima di provare questa esperienza. Accetta quello che puoi e lascia scorrere quello che non aggiunge nulla.
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Il tempo non guarisce un bel niente. Se potesse guarire qualcosa non starei ancora male pensando alla mia macchinetta rossa lasciata/persa in Vaticano dopo una visita con i miei quando avevo 5 anni; la storia che ci stava giocando il papa che mi avevano raccontato i miei per consolarmi non mi ha mai convinto.
Ma il tempo qualcosa fa: ti insegna a ballare con il dolore, e piano piano il ballo diventa più fluido, quasi naturale, fino a diventare parte di te.
Ogni volta che finisco di scrivere queste newsletter, mi chiedo se ha senso pubblicarle. Questa volta più che mai visto che si tratta qualcosa di così personale.
Ma penso che forse qualcuno là fuori sta vivendo qualcosa di simile e si sente solo, o pazzo, o entrambe le cose. E allora magari serve sapere che è normale, che è così per tutti, che si sopravvive.
Non si torna come prima, questo no. Ma si va avanti.
Sempre avanti, condannati all’ottimismo!
Giuseppe