Qualche giorno fa ho avuto l’opportunità di assistere allo speech di Amy Edmondson al Leadership Forum di Milano organizzato da Marcello Mancini (e grazie!). Il tema del suo intervento è stato super interessante ovvero l’importanza della sicurezza psicologica in un contesto con regole formali ed informali come l’azienda.
Sicurezza psicologica in questo contesto non significa però proteggere le persone da ogni fallimento – anzi, è proprio il contrario. Significa creare un ambiente dove, proprio come un bambino che impara a camminare, ci si può sentire liberi di sperimentare, di cadere e di rialzarsi, senza il timore del giudizio o delle conseguenze. È questo tipo di ambiente che permette l’innovazione e la crescita vera in azienda.
Ma allora mi sono chiesto: quando è che in azienda abbiamo perso questa capacità di vedere il fallimento come parte naturale dell’apprendimento?
Imparare a fallire
Iniziamo con il dire che … non è una roba che nasce in azienda, anzi!
Tutto inizia sui banchi di scuola, dove fin da piccoli assimiliamo l’idea che esista una risposta giusta e una sbagliata, e che il nostro valore viene misurato dalla capacità di dare risposte corrette. Questo modello mentale ci accompagna poi nel mondo del lavoro, dove si cristallizza ulteriormente sotto la pressione delle organizzazioni moderne.
Viviamo in un’epoca dove l’unica certezza è l’incertezza (Trump2 anybody?), eppure le nostre organizzazioni hanno sviluppato una cultura che richiede certezze granitiche e punisce ogni deviazione dalla perfezione, senza distinguere tra errori evitabili e fallimenti necessari per l’innovazione.
Il punto cruciale è che si può imparare dagli errori e dai fallimenti solo quando questi diventano parte di un processo di apprendimento consapevole. In assenza di questo processo, gli errori rimangono sterili, senza produrre alcuna crescita o miglioramento.
Per recuperare questa capacità fondamentale, le organizzazioni dovrebbero innanzitutto creare, appunto, un ambiente dove le persone si sentano libere di parlare apertamente di errori e fallimenti. Ma poi è fondamentale imparare a distinguere tra diversi tipi di fallimento che non sono tutti uguali.
I tre volti del fallimento
Dalla presentazione della Edmondson ho imparato infatti che non tutti i fallimenti sono uguali e non tutti meritano lo stesso tipo di risposta organizzativa. Ci sono almeno tre tipologie distinte di fallimento, ciascuna con le proprie caratteristiche e implicazioni per la crescita in contesti aziendali.
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Fallimenti base: quelli evitabili, come quando ho dimenticato di salvare un documento importante (sì, succede ancora nel 2024!). Questi fallimenti sono particolarmente frustranti proprio perché evitabili attraverso procedure adeguate, sistemi di controllo e una formazione appropriata.
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Fallimenti complessi: quelli che nascono dalla tempesta perfetta di piccoli errori in sequenza che, presi singolarmente, sarebbero innocui. La caratteristica distintiva di questi fallimenti è che l’eliminazione di anche uno solo dei fattori avrebbe potuto prevenire il disastro.
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Fallimenti intelligenti: quelli che ci insegnano qualcosa di nuovo. Questi sono i fallimenti che nascono dall’esplorazione consapevole di territori inesplorati e portano a nuove conoscenze.
I primi due dovremmo cercare di eliminarli. Il terzo dovremmo cercarlo attivamente e, perchè no, celebrarlo, ma perché un fallimento possa essere considerato davvero costruttivo e prezioso, deve però rispettare alcune caratteristiche ben precise.
Prima di tutto, deve avvenire mentre stiamo esplorando qualcosa di nuovo, un terreno mai battuto prima. Pensate a uno chef che prova una ricetta innovativa, o a un’azienda che testa un prodotto mai visto sul mercato.
Poi, non deve essere un tentativo alla cieca: dobbiamo avere buone ragioni per credere che quello che stiamo provando possa funzionare e portarci a qualcosa di importante.
Ma c’è un ultimo aspetto, forse il più importante: il fallimento deve essere “su misura”. Come quando si assaggia una nuova ricetta: meglio provare con piccole porzioni che sprecare ingredienti per un banchetto intero. L’errore deve essere abbastanza grande da insegnarci qualcosa, ma non così grande da mettere a rischio l’intera impresa.
In altre parole, un fallimento intelligente è come un esperimento ben progettato: avventuroso ma non sconsiderato, ambizioso ma non megalomane, preparato ma non paralizzante. È il tipo di fallimento che, anche quando non raggiunge l’obiettivo sperato, ci lascia comunque più ricchi di conoscenza e esperienza.
Ok, ma da dove partire per iniziare a ridefinire il senso del fallire in un contesto complesso come quello aziendale?
Serve una “lampadina”!
Edison e le 1000 lampadine
Thomas Edison, quando gli chiesero dei suoi fallimenti nello sviluppo della lampadina, rispose: “Non ho fallito. Ho solo trovato 1000 modi che non funzionano“. Non era solo ottimismo – era la comprensione profonda che in territorio inesplorato, il fallimento è informazione.
Come costruire allora una cultura del fallimento intelligente? Beh ci sono alcune azioni che puoi implementare da subito e sono alcune pratiche concrete che sembrano funzionare bene:
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“Failure Friday”: ogni venerdì condividere un fallimento della settimana e cosa abbiamo imparato dagli errori fatti
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“No blame game”: quando qualcosa va storto, la prima domanda è “cosa possiamo imparare?”, non “chi ha sbagliato?”
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“Test piccoli, frequenti”: meglio tanti piccoli fallimenti controllati che un grande disastro
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“Celebrazione degli apprendimenti”: premiamo non solo i successi, ma anche i fallimenti che ci hanno insegnato qualcosa di importante
C’è poi un aspetto del fallimento di cui parliamo poco: la solitudine. Quando le cose vanno male, spesso ci sentiamo isolati, come se fossimo gli unici ad aver mai sbagliato. È qui che la leadership deve fare la differenza: creando uno spazio sicuro dove il fallimento non è un tabù, ma un’opportunità di crescita collettiva.
Come raccontava Amy Edmondson nel suo speech: “Se un fallimento intelligente accade due volte nella vostra organizzazione, non è più intelligente“. La vera sfida non è evitare i fallimenti – è assicurarsi che ci insegnino qualcosa di nuovo, ogni volta.
Sempre avanti, condannati all’ottimismo!
Giuseppe