Il perché delle bugie di Google sull'AI! (#31)


Nel 2000 lavoravo per una azienda italiana di eCommerce, si chiamava CHL, ed i motori di ricerca erano molto diversi da quelli di oggi. Si chiamavano Excite, Altavista e Virgilio (più directory che motore, ma è un’altra storia). E proprio grazie a Virgilio, o sarebbe meglio dire grazie alla sua scarsa lungimiranza, sempre nel 2000 in Italia abbiamo iniziato a sentir parlare di Google e del suo motto.

“Don’t Be Evil!”

Più di un semplice payoff, era un vero manifesto di intenti, la colonna vertebrale della filosofia aziendale nelle sue fasi iniziali di crescita. Erano gli anni delle big tech che facevano grandi fatturati con prodotti scadenti e senza troppo rispetto per i propri consumatori.

Don’t Be Evil” posizionava così l’azienda di Mountain View come una sorta di cavaliere bianco nell’oscuro mondo della tecnologia, un’azienda tech che non solo fa, ma fa anche la cosa giusta.

Quando però si è trattato di mettere in pratica questi principi nel business quotidiano, le cose si sono rivelate un pò più complesse. Le controversie e le critiche negli anni hanno riguardato tantissimi aspetti, dalla censura dei risultati di ricerca in Cina fino alle pratiche di gestione dei dati degli utenti.

Il tema però non è solo di etica, ma anche di prodotto e l’affermazione della Generative AI lo sta rendendo evidente.

Ma proviamo a riavvolgere il nastro.

Pronto? Chi Google?

Google ha da sempre investito molto in AI; nel 2014 l’acquisto di DeepMind ha portato la maggior parte degli esperti di questa materia a lavorare per Google. Pochi anni dopo, nel 2018 il primo annuncio del risultato di questi sforzi.

Google Duplex (al link trovi la sua demo più famosa), lanciato nel corso del Google I/O, prometteva infatti di utilizzare l’intelligenza artificiale per effettuare chiamate telefoniche in nome degli utenti, prenotare servizi e completare acquisti. Nella demo proposta sul palco suonava sorprendentemente naturale e poteva comprendere il linguaggio complesso e le risposte umane.

Una vera figata vero? Già, se non fosse che il progetto non è mai realmente decollato, nessuno ha mai realmente potuto testarlo e, giusto un anno fa, Google ne ha annunciato la chiusura citando tra le motivazioni il costo dell’addestramento dell’AI per leggere e comprendere le funzionalità dei siti coinvolti.

Suona familiare? Già!

Un’altra brutta figura

Dopo averlo atteso per quasi un anno, questa è stata la settimana del lancio di Gemini. La risposta di Google a OpenAI e ai suoi principali concorrenti (la maggior parte dei quali nati proprio da ex-dipendenti di Deepmind, come Mustafa Suleyman e la sua Inflection).

Le aspettative erano altissime e i video delle demo del nuovo modello sono stati indubbiamente all’altezza delle attese: “Hands-on with Gemini: Interacting with multimodal AI” ad esempio ha avuto in meno di 2 giorni più di 2 milioni di visualizzazioni, mostrando la capacità del nuovo modello di riconoscere in tempo reale il disegno di una papera blu ed interagire con comandi vocali, oltre a molto altro.

Ma c’è un però. Era un falso!

Google stessa ha rivelato che ciò che è mostrato nel video non corrisponde esattamente al funzionamento reale di Gemini. “Per scopi dimostrativi, la latenza è stata ridotta e le risposte di Gemini sono state accorciate per brevità“, si legge nella descrizione del demo caricato su YouTube. E non finisce qui!

Uno dei punti di maggior attenzione era, inevitabilmente, il confronto con ChatGPT, secondo Google vinto a mani basse dal suo Gemini. In realtà in diversi hanno notato che i risultati dei test mostrati sono stati ottenuti utilizzando un modello obsoleto di ChatGPT, non disponibile al pubblico da oltre 6 mesi.

Utilizzando per il confronto l’ultima versione di ChatGPT (Turbo), i due modelli di fatto si equivalgono. Perchè questo è importante? Beh perchè non è solo un tema tecnico o di marketing, ma di fiducia. E la fiducia sarà uno dei criteri chiave per stabilire il successo di questi modelli nel futuro. Ma allora, perchè?

Perchè Google si è messa in questa situazione?

Il dilemma di Google

A Giugno 2022 Google poteva vantare ancora il 91.54% di quota di mercato nell’ambito dei motori di ricerca (sul mobile si arriva a superare il 96%) per un settore che nel suo insieme vale quasi 300mld di $.

E però, dal punto di vista del prodotto, ormai da tempo si avverte una certa “fatica”; in 20 anni da leader le innovazioni sono state davvero poche e tutte incrementali. Di fatto oggi usiamo ancora i motori di ricerca proprio come facevamo 20 anni fa, con le stesse funzionalità e, soprattutto, le stesse inefficienze. Come mai?

Lo chiamano “The Innovator’s Dilemma” ed è un concetto coniato da Clayton Christensen per descrivere la sfida che le aziende consolidate affrontano quando devono adattarsi a tecnologie innovative che potrebbero rivoluzionare il loro mercato. In sintesi queste imprese spesso trascurano le innovazioni disruptive perché si concentrano sulle esigenze attuali dei loro clienti e sulla massimizzazione del profitto a breve termine. Di conseguenza, possono perdere terreno di fronte a nuovi concorrenti che adottano e migliorano queste tecnologie, cambiando radicalmente l’industry di riferimento.

Ho la sensazione che sia un pò quello che sta succedendo a Google, soprattutto con l’AI.

Per startup come OpenAi o Perplexity (da provare) è chiaramente più semplice; non c’è un mercato di riferimento, non ci sono rendite di posizione da difendere e quindi è più facile sperimentare anche modalità innovative nel search.

Google non può permettersi di perdere le revenue che derivano dalle inefficienze del suo prodotto di punta investendo in soluzioni che potrebbero rispondere ad una ricerca in modo più efficace, ma con meno spazio per gli inserzionisti.

Quindi, da un lato doveva necessariamente uscire entro l’anno con un modello simile, per confermare la propria superiorità tecnologica, dall’altro, forse, Google stessa non ci crede abbastanza … ed ecco il risultato. Una brutta figura, appunto.

La mia opinione personale è che il vero campo di applicazione per Google con questi modelli si trovi nel settore aziendale dove nel confronto con Microsoft è ancora perdente; se Google riuscirà ad integrare Gemini nella propria suite di business in modo efficace e, soprattutto, se troverà una soluzione economica per rendere sostenibili i costi, allora questo modello avrà concrete possibilità di successo e potrà apportare un valore significativo all’azienda. E se così non fosse?

Allora Gemini andrà a far compagnia alla lunga lista di prodotti terminati da Google.

Sempre avanti, condannati all’ottimismo!

Giuseppe