Italia 2025: più soli, arrabbiati e senza storia (#103)


SONG OF THE WEEK: Viva L’Italia (De Gregori)

Che settimana strana quella appena passata. Il Papa se n’è andato all’improvviso e l’Italia, per certi versi, si è fermata. Giorni di lutto nazionale, richieste di celebrazioni “sobrie” per il 25 Aprile mentre si preparavano i funerali del Pontefice, e poi un fiume di meme, commenti, polemiche e contro-polemiche che hanno invaso giornali e social.

Qualche giorno fa mi son ritrovato a discutere su Facebook (mannaggia a me e quando lo apro) contro le solite teorie revisioniste sulla resistenza e il giorno prima, sul treno, una ragazza mi ha aggredito e dato del maleducato solo per aver chiesto di non avere il suo cane (di grossa taglia e senza museruola) tra i piedi. Dove finisce il diritto ed inizia la prevaricazione?

Ma, soprattutto, in che Paese viviamo oggi? L’Italia che vedo intorno a me ogni giorno, l’Italia che emerge dai numeri e dalle statistiche, l’Italia raccontata dai ricercatori e dagli analisti sociali, è un Paese che mi preoccupa. Da uomo, figlio e padre.

E allora mi son messo a cercare qualche dato… e l’ho trovato.

Il Paese della paura del diverso

Partiamo dal nostro rapporto con gli “altri”, quelli che non sono “noi”. I numeri sono impressionanti: il 70% degli italiani riconosce che nel nostro Paese esiste discriminazione basata sull’origine etnica. Non stiamo parlando di percezioni vaghe, ma di realtà quotidiana.

In dieci anni il supporto a politiche di inclusione come lo Ius soli è crollato dal 60,3% al 50%, mentre è triplicata la percentuale di chi preferisce lo Ius sanguinis rigoroso, passando dal 10,7% al 33,5%.

Ma il dato che mi ha colpito di più è un altro: oggi il 17,1% degli italiani ritiene “condivisibile” (cioè comprensibile) avere diffidenza verso gli immigrati. Dieci anni fa era il 10,4%. Parallelamente, è calata la quota di chi lo ritiene “riprovevole”, dal 17,7% di dieci anni fa al 13,4% di oggi.

Insomma, c’è meno condanna morale del razzismo quotidiano rispetto a dieci anni fa. Come se avessimo abbassato l’asticella dell’accettabilità.

E poi ci sono i numeri specifici sulle minoranze. L’86% degli italiani ha un’opinione sfavorevole dei Rom – il dato più alto in Europa. Il 69% ha un’opinione sfavorevole dei musulmani. Un italiano su tre (33,4%) pensa che “gli ebrei controllano il potere economico e finanziario mondiale”, e il 29,2% crede che “gli ebrei controllino i mezzi d’informazione”.

Vi sembrano numeri normali per un Paese che si dice civile? A me no, ma mi direte: “eh ma non puoi negare che le tensioni sociali siano aumentate, che la crisi economica abbia esasperato gli animi“. Verissimo, ma permettetemi di collegare questa rabbia verso il diverso a un’altra tendenza preoccupante.

Un Paese che riscrive la propria storia

Eccoci al secondo punto: il revisionismo storico. Perché è molto più facile prendersela con il “diverso” quando la memoria collettiva si indebolisce, quando la storia diventa opinione.

Anche qui, qualche esempio? I dati sono sconvolgenti. Nel 2020, il 15,6% degli intervistati dall’Eurispes affermava che la Shoah “non è mai avvenuta”. Nel 2004 era il 2,7% e comunque il 15,9% crede oggi che il numero delle vittime sia stato esagerato.

Quasi un italiano su cinque (19,8%) concorda con l’affermazione secondo cui “Mussolini è stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio. Come se qualcuno dicesse che Attila l’Unno era un grande statista che “occasionalmente” decapitava qualche nemico.

E poi c’è quel 30% di italiani che considera l’antifascismo un “concetto superato” – percentuale che sale al 40% tra gli elettori dei partiti di destra.

Cosa sta succedendo? Stiamo perdendo la nostra memoria storica? Stiamo relativizzando tutto, anche le verità storiche più solide? E se la storia diventa opinione, se tutto diventa relativo, allora anche l’odio per il diverso diventa accettabile. La connessione tra questi due fenomeni non è casuale, è causale.

Ma c’è di più.

Il Paese delle isole

Il terzo elemento di questa triste trinità è l’individualismo crescente. Forse anche per reagire a quello che ho appena descritto, viviamo sempre più soli, in tutti i sensi.

Le famiglie unipersonali (persone che vivono da sole) rappresentano oggi circa un terzo dei nuclei familiari (33,3%), in forte aumento rispetto a vent’anni fa. Parallelamente, le famiglie numerose sono ormai rare (solo il 5,3% hanno 5 o più componenti).

Secondo il Censis, soltanto il 15% degli italiani sente di appartenere pienamente a una comunità al di fuori della famiglia. Tra i giovani la situazione è ancora più drammatica: oltre la metà non si sente parte di alcuna comunità e, tra questi, 3 su 4 dichiarano di non sentire nemmeno la mancanza di un’appartenenza comunitaria.

Nel frattempo, i volontari attivi in organizzazioni non profit sono passati da 5,5 milioni nel 2015 a 4,66 milioni nel 2021, con un calo del 15,7%. La disponibilità a impegnarsi per gli altri sta diminuendo.

E forse il dato più emblematico è questo: solo il 19% degli italiani pensa che una vita pienamente degna sia quella in cui “si fa del bene agli altri”.

Ecco quindi i tre pilastri della nuova Italia: diffidenza verso il diverso, perdita della memoria storica e ripiegamento su se stessi.

L’uno alimenta l’altro in un circolo vizioso. Se non mi sento parte di una comunità, perché dovrei preoccuparmi della sua storia? Se non conosco la storia, come posso capire l’importanza dell’inclusione? E se vedo il diverso come una minaccia, come posso costruire nuove comunità?

“L’ottimismo della volontà”

Potrei finirla qui e godermi questa visione catastrofica per poi correre a chiudermi in casa sul lago e ignorare il resto, ma no, non esiste!

In questa settimana stranissima, dopo mesi passati a discutere di intelligenza artificiale, di prompt engineering, di LLM, mi è tornata in mente una citazione sull’intelligenza che è di Antonio Gramsci e che amo profondamente:
Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà“.

Ecco, mai come oggi questa frase mi sembra attuale.

L’intelligenza, quella analitica e razionale, quella che legge i dati e interpreta le tendenze, ci porta spesso al pessimismo; le statistiche che vi ho raccontato sembrano dipingere un’Italia in declino e più solitaria, più arrabbiata, più disconnessa dalla propria storia.

Ma poi c’è la volontà. Ed è qui che si gioca la partita vera.

Perché la volontà non è un semplice desiderio, non è wishful thinking. La volontà è determinazione, è capacità di agire nonostante tutto, è la scelta consapevole di cambiare rotta anche quando la corrente spinge nella direzione opposta.

Ed è interessante che sia proprio un pensatore come Gramsci a ricordare questa dualità; lui, che ha vissuto sulla propria pelle il fascismo, la prigione, la malattia, eppure non ha mai smesso di coltivare quell’ottimismo della volontà che lo ha reso una delle menti più lucide del ‘900.

L’Italia che amo non è quella dei numeri che vi ho raccontato. È l’Italia della solidarietà, della cultura, dell’ingegno, della bellezza. È l’Italia che ha saputo rinascere dopo la guerra, che ha saputo accogliere e integrare, che ha scritto una Costituzione basata sull’antifascismo e sull’uguaglianza.

Allora forse, mentre ci troviamo a discutere di intelligenza artificiale, dei suoi impatti sul futuro e sul rischio che “sostituisca” quella umana, ogni tanto dovremo anche ricordarci dell’importanza di coltivare la volontà, qualcosa che nessun algoritmo potrà mai replicare: la volontà di cambiare le cose, di andare controcorrente, di scegliere un percorso diverso.

In fondo, è proprio nei momenti più bui che la volontà umana ha sempre saputo illuminare nuovi percorsi. E allora, come diceva Gramsci, permettiamo pure all’intelligenza di essere pessimista, ma non rinunciamo mai all’ottimismo della volontà.

Sempre avanti, condannati all’ottimismo!

Giuseppe