Nell'era dell'AI è l'intelligenza emotiva il nuovo petrolio (#107)


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La settimana scorsa ho parlato qui delle competenze che l’AI non ci ruberà mai, ma grazie ai vostri commenti e alle riflessioni che ne sono seguite, ho iniziato a pensare che forse ce n’è una che è più importante di tutte le altre: l’intelligenza emotiva.

Non è solo una mia impressione. È quello che sta emergendo dai dati più recenti e dai fallimenti più clamorosi di chi ha pensato che bastasse investire in tecnologia per vincere la partita dell’AI. Ma andiamo con ordine.

Il primo dato che mi ha fatto riflettere è che il 54% dei dipendenti pensa di essere competente nell’uso dell’AI, ma quando li metti alla prova, solo il 10% lo è davvero. E se scendiamo nel dettaglio, scopriamo che appena l’1% può definirsi “esperto”. Il resto? Tutti novizi che si credono esperti.

E torniamo al punto dolente: le aziende stanno investendo cifre enormi in AI – il 60% delle imprese globali ha investito in soluzioni di intelligenza artificiale nell’ultimo anno – ma i risultati concreti continuano a latitare. Il 30% dei dipendenti risparmia tra zero e due ore a settimana usando l’AI. Zero. Due. Ore.

Come è possibile? Semplice: abbiamo dimenticato che al centro di ogni trasformazione tecnologica ci sono sempre le persone. E le persone, prima di essere lavoratori o utenti, sono esseri emotivi.

Aziende a doppia velocità

I numeri raccontano una storia impietosa. Prendiamo la ricerca di Section su 5.000 impiegati: come detto la gran parte della forza lavoro rientra nella categoria “novizi” dell’AI, ma la cosa più interessante è il gap percettivo tra chi comanda e chi esegue.

Il 75% dei dirigenti dichiara che l’adozione AI della propria azienda nell’ultimo anno è stata un successo. Dall’altra parte, solo il 45% dei dipendenti la pensa allo stesso modo. La cosa diventa ancora più paradossale se consideriamo che sempre nella stessa ricerca quasi 9 leader su 10 affermano che la loro società ha una chiara strategia AI, ma appena il 57% dei dipendenti ne è consapevole o la sa citare.

E non è solo una questione di comunicazione. È una questione di accesso: il 76% dei dipendenti complessivi non ha ricevuto alcun training aziendale sull’AI, mentre i manager di livello direttivo risultano quasi 3 volte più competenti degli impiegati junior proprio perché le opportunità di apprendimento sono spesso riservate ai ruoli apicali.

Il risultato? Le organizzazioni vivono una sorta di “doppia velocità”: vertici entusiasti e ben attrezzati da un lato, forza lavoro spesso poco coinvolta e impreparata dall’altro.

Il caso Klarna: quando l’AI senza cuore ti costa caro

Nelle ultime settimane ha fatto molto clamore una storia che spiega meglio di qualsiasi statistica perché l’intelligenza emotiva è il vero game changer.

Klarna, la fintech svedese leader nel buy-now-pay-later, nel 2023-24 aveva deciso, sull’onda dell’hype, di puntare tutto sull’AI. Come? Aveva ridotto il personale di quasi il 40% e sostituito circa 700 addetti del customer service con un chatbot AI. L’approccio era “AI-first”: efficienza massima, costi ridotti, automazione totale.

Il risultato? Un disastro.

L’azienda ha dovuto ammettere che il passaggio a un supporto completamente automatizzato aveva deteriorato la qualità del servizio clienti, generando insoddisfazione diffusa. Così Klarna ha fatto marcia indietro: ha reintrodotto operatori umani nell’assistenza, tornando a un modello ibrido.

La lezione? L’assenza totale di input umano fa perdere empatia, creatività e gestione delle eccezioni – componenti che nemmeno l’AI più evoluta riesce a replicare appieno.

Come dice Jim Stratton, CTO di Workday: “L’AI non sta rimpiazzando gli esseri umani, bensì le capacità personali continuano ad essere altamente valorizzate sul luogo di lavoro“.

Uno dice, vabbeh adesso è chiaro e tutti lavoreranno in questo senso; è invece eccoti pochi giorni fa l’annuncio del CEO di Duolingo della sua scommessa “Ai-First”…

Ma allora? Provando a fare un pò d’ordine ho cercato di mettere in fila le riflessioni della settimana dopo aver letto i vostri commenti e le ricerche che citavo sopra.

Lezione N.1 – Le emozioni non sono un ostacolo, sono la bussola

Qui arriviamo al punto: le emozioni che l’AI scatena nei dipendenti non sono un effetto collaterale da minimizzare. Sono informazioni preziose per guidare la trasformazione.

I dati lo confermano: da un lato cresce l’entusiasmo per le potenzialità dell’AI. Nel 2024 solo il 54% dei lavoratori accoglieva positivamente l’uso dell’AI sul posto di lavoro, mentre oggi l’83% ritiene che l’AI amplificherà le competenze umane e la creatività invece di soppiantarle.

Dall’altro lato, però, permangono paure significative. Appena il 23% dei dipendenti si dichiara veramente entusiasta dell’impatto che l’AI potrà avere sul proprio lavoro. La gran parte, il 79%, si sente sopraffatta o in ansia rispetto alle implicazioni dell’AI sul proprio ruolo.

Le aziende che riescono a gestire questo mix di emozioni – eccitazione e paura, curiosità e resistenza – sono quelle che ottengono i risultati migliori. Non ignorano le emozioni: le ascoltano, le normalizzano, le trasformano in energia positiva per il cambiamento.

Lezione N.2 – La fiducia è il vero moltiplicatore dell’AI

Una ricerca Harvard del 2025 ha messo il dito nella piaga: “I dipendenti non si fideranno dell’AI se prima non si fidano dei loro leader“. E allora anche per avere il massimo dell’AI non dobbiamo dimenticare quanto siano importanti le politiche di change e il focus sulla leadership.

È un punto fondamentale. Il 71% dei dipendenti afferma di fidarsi del proprio datore di lavoro per un uso sicuro ed etico dell’AI – percentuale ben superiore a quella di fiducia verso governi o Big Tech. Ma questa fiducia non è scontata: va costruita e mantenuta giorno dopo giorno.

Significa comunicare con trasparenza sui rischi e benefici dell’AI. Significa coinvolgere attivamente il personale nelle iniziative invece di calare tutto dall’alto. Significa ammettere quando non si hanno tutte le risposte e costruire il percorso insieme.

La fiducia, in altre parole, è il moltiplicatore nascosto dell’AI. Con la fiducia, l’adozione decolla. Senza, anche la tecnologia più avanzata rimane un investimento sprecato.

Lezione N.3 – I manager sono il collo di bottiglia (o l’acceleratore)

Ecco un dato che mi ha colpito: se un manager di linea scoraggia l’uso dell’AI, la competenza AI del suo team si dimezza. Al contrario, con leader sponsor e “coach” dell’innovazione, l’adozione decolla.

Il problema, è non è solo legato all’AI, è che molti manager sottovalutano il loro ruolo emotivo. Un sondaggio globale rivela un gap preoccupante: l’82% dei dipendenti sente fortemente il bisogno di connessione umana e supporto emotivo nell’era dell’AI, a fronte di solo il 65% dei manager che riconosce tale necessità.

I manager più efficaci diventano “ambasciatori” del cambiamento, fungendo da ponte tra il top management e i team operativi. Comunicano con chiarezza il perché delle nuove soluzioni AI, mostrano in prima persona come utilizzarle e rimangono aperti ai feedback del gruppo.

Non è solo questione di competenze tecniche. È questione di intelligenza emotiva: saper cogliere i segnali non verbali di disagio o entusiasmo, mostrare empatia verso le preoccupazioni legittime dei collaboratori, adattare il proprio stile di leadership di conseguenza.

Un caso interessante: AI coach per l’intelligenza emotiva

Scartabellando in rete e cercando casi da citare ne ho trovato uno che mi sembra interessante: l’AI che ci aiuta a diventare più umani.

Nei primi mesi del 2025 è stato lanciato Sagey, un coach virtuale di intelligenza emotiva sviluppato da TalentSmartEQ. Questo coach digitale è sempre disponibile e interviene con suggerimenti contestuali: vede dal calendario che un manager sta per fare un colloquio di valutazione e invia un suggerimento su come gestire quella conversazione in modo emotivamente intelligente.

Le funzionalità includono coaching individualizzato sui comportamenti emotivi, promemoria proattivi che rinforzano nel tempo quanto appreso nei corsi di formazione, e un modulo per coinvolgere i manager nel monitorare i progressi del team in termini di intelligenza emotiva.

L’idea è rendere l’apprendimento dell’intelligenza emotiva pratico e continuativo, estendendo l’effetto dei workshop oltre l’aula, “nel flusso di lavoro” quotidiano.

Si parla già di AI Coach non solo per l’intelligenza emotiva, ma anche per migliorare abilità di public speaking, per il time management e per il wellbeing. Ogni dipendente potrebbe avere una sorta di “personal trainer virtuale” che lo aiuta a crescere professionalmente e personalmente.

Questo mi sembra al tempo stesso interessante e preoccupante, ma è sicuramente una strada che vedremo molto sviluppata in futuro.

Il tuo vantaggio competitivo nascosto

Quindi, mentre tutti corrono dietro agli ultimi modelli di AI e investono miliardi in tecnologia, qual è il vero vantaggio competitivo?

La capacità di integrare l’intelligenza artificiale con l’intelligenza emotiva. Di progettare l’AI come strumento al servizio del talento umano, mai come fine a sé stante. Di costruire fiducia, gestire le emozioni del cambiamento, sviluppare leader emotivamente intelligenti.

Le aziende che prospereranno nell’era dell’AI saranno quelle che sapranno fondere cuore e algoritmo, tecnologia e fattore umano. Perché alla fine, come dimostra il caso Klarna e come confermano tutti i dati che abbiamo visto, l’AI senza l’elemento umano non funziona.

L’intelligenza emotiva non è più una soft skill. È il nuovo petrolio. Chi investe in intelligenza emotiva oggi dominerà il futuro del lavoro domani.

Sempre avanti, condannati all’ottimismo!

Giuseppe